sabato 10 settembre 2011

9/11: tu dov'eri?


In questi giorni è la domanda più gettonata, quella si sente ripetere dappertutto. Dov’eri, cosa facevi, cosa pensavi quell’11 settembre 2001? Ha percepito subito il respiro infuocato della storia, oppure il timore ha cancellato qualsiasi altro pensiero? Hai avuto paura?
Io ero a lavoro. All’epoca scrivevo da giornalista esterna per alcuni tra i maggiori settimanali italiani. Era un giorno di quelli che vorresti per tutta l’estate. Cielo azzurro, sole smagliante, colori accesi, brezza fresca. Uno splendore pre-autunnale che dominava di qua e di là dell’oceano Atlantico. In Italia era l’ora quieta del dopo pranzo. Una scrivania, un telefono, un computer. Non ricordo cosa pensassi, lo confesso. Ricordo che non stavo scrivendo un articolo, forse ero alla ricerca di una notizia, forse lasciavo galleggiare i pensieri nei territori per me sempre fertili della fantasia. Da un’altra stanza dell’agenzia per la quale lavoravo, un service di giornalisti e fotografi, arrivò un collega. Lui parlava le lingue, si occupava dei rapporti con le testate estere. Era pallido e disse una cosa che nessuno di noi, in quel momento, riuscì a capire: “Un aereo di linea si è schiantato contro il World Trade Center.” Un incidente, grave sicuramente. Ma un qualsiasi incidente aereo, come se ne vedono tanti. Il collega, Marco, tornò di là, lasciandoci a commentare un fatto che non lasciava presagire qualcosa di epocale. Pochi minuti e Marco chiamò, la voce che tremava: “Venite, le agenzie parlano di un altro aereo contro le Torri Gemelle.” Uno, un incidente, due no. Non poteva essere. Iniziò in quel momento un vortice. Il televisore era rotto da tempo. Ci precipitammo su Internet e scoprimmo che la Rete era nel panico quanto tutti noi. Impossibile ottenere notizie, impossibile connettersi a un qualsiasi sito d’informazione americana. Fuori il cielo continuava ad essere azzurro, le strade del centro di Roma tranquille. Era un martedì, primissimo pomeriggio. Chiamai mia madre e la prevenni di pochissimo. Neanche il tempo di dire pronto e mi annunciò: “Stanno bombardando New York.” Un brivido, insieme di orrore e di eccitazione. Il fiato infuocato della Storia. La percezione immediata che quel momento stava assumendo un significato che avrebbe risuonato negli anni a venire. “Un altro aereo contro Washington”, “Attaccato il Pentagono”, “Un quarto aereo punta verso la costa occidentale”, “No, è precipitato”. Un attacco senza precedenti, migliaia di persone intrappolate nei grattacieli simbolo degli Stati Uniti. Poi una delle Torri vacilla, crolla. L’altra la segue. Quante volte abbiamo visto quell’immagine incredibile? Quante teorie si sono avvicendate? Complottisti contro fili-americani. Ground Zero, termine ormai entrato nell’uso comune, simbolo della potenza umiliata, ma anche della forza che un paese come gli Stati Uniti seppe trovare stringendosi intorno a un presidente eletto con un colossale broglio elettorale solo pochi mesi prima, e contro un sindaco, Rudolph Giuliani, tra i più odiati dalla Grande Mela. Ricordo la malia con cui seguii notiziari e approfondimenti, l’orrore e la fascinazione con cui lessi le testimonianze dei sopravvissuti e la trascrizione delle telefonate di chi sapeva che non ce l’avrebbe fatta. Il giorno dopo, 12 settembre, le prime pagine dei giornali erano tutte per quello che è stato definito il più disastroso attacco terroristico della storia. Venne richiesto un minuto di silenzio planetario, a mezzogiorno, per tutti i mezzogiorno segnati dai fusi orari, in memoria di quelle migliaia di vittime che allora venivano date per decine di migliaia. Decine di migliaia come i sacchi che vennero preparati e rimasero inutilizzati. Perché le vittime erano polvere, polvere grigia come le Torri. A mezzogiorno di mercoledì 12 settembre 2001 feci una cosa che non facevo da tempo e che non ho più fatto. Entrai nella navata severa di una chiesa, mi inginocchiai, accesi una candela e pregai per quelle migliaia di morti. Non servì a esorcizzare il dolore che sentivo diffondersi nell’aria come il fumo degli apocalittici incendi di Ground Zero. Non servì a rinfocolare la mia fede languente. Ma volli farlo. Volli pensare a coloro che si erano gettati nel vuoto per sfuggire al fuoco, a coloro che avevano chiamato i propri cari per dire addio, a coloro che accorsero per aiutare e lo fecero fino all’estremo sacrificio. Ci ho pensato quando finalmente sono riuscita ad andare a New York e a visitare il cantiere di Ground Zero. Ci penso ancora oggi che al posto delle Torri Gemelle splendono due pozzi di acqua che precipita senza mai esaurirsi. Come la memoria.

Laura

2 commenti:

  1. Gran bel pezzo, Laura.
    Sei riuscita ad esprimere quella sensazione, un misto di orrore e fascinazione morbosa, che prese anche me, quel giorno e per sempre...
    Ero al lavoro, alla segreteria di un centro sportivo.
    Lo seppi allo sportello dal papà di una bambina che veniva a pagare la quota mensile del corso.
    Ricordo la sensazione come di sospensione del tempo e di averlo guardato come inebetita, non capendo di cosa stesse parlando.
    Quando me lo ripetè, pensavo si riferisse a qualche astruso telefilm di cui non sapevo niente.
    Solo più tardi realizzai l'atrocità e mi prese come un senso di straniamento, di qualcosa di impossibile da accettare per la ragione. Ho ancora la stessa sensazione, a dieci anni di distanza, ogni volta che incappo in qualche notizia relativa al 9/11.
    Non riesco a smettere di leggere o guardare ogni video che ne parla e allo stesso tempo non riesco a "normalizzare" l'evento dentro la mia testa.
    Come se quelle immagini continuassero a dirmi una verità così terribile da non poter essere accettata.

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  2. Un evento cosi' non si puo' normalizzare.

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