martedì 24 aprile 2012

Un racconto per il 25 aprile: L'avevamo fatto prigioniero


L’avevamo fatto prigioniero…

“Sarà puntuale?”, chiese Tomaso accendendo la sigaretta al riparo dal vento teso che alzava onde e spirali di sabbia.
“I giornalisti non lo sono mai”, commentò Alfonso, inforcando gli occhiali per dare ancora una scorsa all’articolo apparso su Latina Oggi due giorni prima.
“Lo sai a memoria ormai, che altro vuoi trovarci?”. Il rumore croccante di una caramella che veniva scartata accompagnò la voce di Guglielmo. Abbandonò l’incarto al vento e lasciò vagare lo sguardo sul tramonto mentre palleggiava la Rossana da guancia a guancia.
Il breve articolo a firma Max De Feudi era saltato agli occhi di Tomaso con la potenza di una deflagrazione. In occasione dei lavori che il comune di Latina aveva avviato sul litorale di Borgo Grappa per la realizzazione di un parcheggio pubblico, gli operai si erano imbattuti in un macabro reperto: lo scheletro di un bambino in divisa da balilla. Immediatamente il ricordo era corso al caso Leonardi.
“Pedofilia”, sputò fuori Alfonso accartocciando il giornale. “Ormai non sanno parlare d’altro.”
“Che vuoi che dica un cronista di… quanti anni può avere? Trenta? Trentacinque? Non ha conosciuto don Bruno”, obiettò Guglielmo facendo sparire un’altra caramella.
“La pianti?”, lo apostrofò Tomaso. “Col diabete che ti ritrovi, rischi di restarci su questa spiaggia.”
“E allora? Vogliamo parlare del tuo enfisema? Ha ragione tua moglie, sei un incosciente. Una ne spegni e un’altra ne accendi.”
“Piantatela tutti e due. Sta arrivando il giornalista e non è il caso di farci riconoscere come tre vecchi rincoglioniti. Io, a vedervi, non vi darei mica retta.”
“Invece a te”, fu il commento all’unisono.
Invidiarono il passo spedito con cui il cronista di Latina Oggi affrontò le dune che a loro tre erano costate più di un affanno. Tomaso ne era sceso sibilando come una teiera. Nella bella luce del crepuscolo il sorriso del ragazzo sembrò un affronto alle loro dentiere. Guglielmo lottò per staccare con la lingua un frammento di Rossana dallo scheletrato, poi indirizzò un cenno di saluto.
“Spero di non avervi fatto aspettare troppo. Un appuntamento in spiaggia a quest’ora e con questa umidità…”
“Giovanotto”, rispose piccato Tomaso, “lei non si preoccupi. Veniamo ai fatti.”
Il giornalista nascose un sorrisetto ed estrasse il piccolo registratore.
“Sono qui per questo. Con chi di voi ho parlato al telefono?”
“Alfonso Marcolin, per servirla”, si fece avanti l’interpellato, ostentando una troppo vigorosa stretta di mano.
“Io ho letto il suo articolo, Tomaso Fantoni.”
“Guglielmo Chiesa, e non sono d’accordo su tutta questa storia. I morti vanno lasciati in pace.”
“Non quando la loro memoria viene messa in discussione. E lei, giovanotto, prima di scrivere certe cose, farebbe bene a documentarsi”. Un’altra sigaretta venne accesa accompagnata da un colpo di tosse. “Don Bruno era una persona meravigliosa, un sant’uomo.”
“Vogliamo andare per ordine?”, propose Max guardandosi intorno e trovando un tronco sul quale sedersi. I tre anziani furono costretti a imitarlo con accompagnamento di giunture scricchiolanti.
“Poi mi date una mano ad alzarmi”, intimò in un sussurro Tomaso agli altri due.
“Che ne sapete voi di Ferruccio Leonardi?”
Rimasero in silenzio per qualche istante. Guglielmo fu tentato di ricorrere a una terza caramella, poi si convinse a desistere. Il suo sguardo e quello di Alfonso conversero su Tomaso che fu compiaciuto di quel passaggio di testimone.
“Eravamo ragazzini di undici anni. Gli americani stavano per sbarcare ad Anzio, quella che i libri di storia conoscono come Operazione Shingles, ha presente?” Il cronista annuì. Guglielmo e Alfonso lanciarono al cielo viola uno sguardo di sopportazione. “Tutta questa zona era una prima linea e chi aveva vissuto il giogo fascista come un peso insopportabile, mordeva il freno. Immediatamente prima del 22 gennaio del 1944, i paracadutisti alleati cominciarono a piovere dal cielo come confetti a un matrimonio. Noi tre, dopo la scuola, venivamo in spiaggia e giocavamo alle truppe da sbarco. Di solito Alfonso faceva il nazista…”
“Non credo che questo interessi al signor De Feudi.”
“Chiamatemi Max, è più comodo. Ma Ferruccio Leonardi?”
“Era un nostro compagno di scuola, giovanotto, ci sto arrivando. Dunque, in una di queste nostre, come vogliamo dire… scorribande, ci imbattemmo in un paracadutista americano ferito che si era nascosto tra le dune. Può immaginare la nostra eccitazione.”
“No, che non può. Lui non c’era”, commentò Guglielmo. Rimediò un’occhiataccia.
“Lo avete aiutato?”, chiese Max.
“Ovviamente”, rispose Alfonso. “Eravamo bambini, ma sapevamo qual era la parte giusta. Quel soldato si chiamava Charles, aveva un braccio spezzato e quasi la nostra età. Era impaurito da morire. Lo abbiamo nascosto in un capanno sul lago di Fogliano, un posto dove andavano i pescatori durante la bella stagione. Ogni giorno, dopo la scuola, ognuno di noi procurava qualcosa da mangiare e glielo portavamo. Gli avevamo anche steccato il braccio con le canne.”
“Nessuno vi aveva detto che rischiavate la pelle se foste stati scoperti?”
“Ce lo aveva detto don Bruno”, intervenne Guglielmo. “Eravamo talmente eccitati per quello che avevamo fatto, che il giorno stesso in cui lo trovammo, siamo corsi in oratorio per dirglielo. Lui ci ha sgridati, ha detto che era una pazzia, poi ci ha dato dei medicinali per aiutarlo. Non poteva venire con noi, i fascisti lo tenevano d’occhio.”
“Per la storia della pedofilia?”
“Giovanotto, questa storia è la più grossa stronzata che sia mai stata inventata. Don Bruno non avrebbe mai, e dico mai, toccato un bambino.”
“Era una calunnia messa in giro dai fascisti”, spiegò Alfonso, “perché don Bruno non nascose mai le sue idee democratiche. E si oppose quando il gerarchetto del paese segnalò uno dei nostri insegnanti per il confino, accusandolo di essere un pervertito… un gay, insomma.”
“Quindi don Bruno faceva, a suo modo, resistenza.”
“Non a suo modo”, puntualizzò Guglielmo. “Rischiava la pelle. Dopo l’otto settembre in questa zona eravamo totalmente in balia dei tedeschi e dei fascisti. Bastava una parola di Leonardi e, se ti diceva bene, finivi a Ventotene. Se ti diceva male…”
“Leonardi chi? Il padre di Ferruccio?”
“Esattamente”, rispose Alfonso, togliendo la sigaretta dalle dita di Tomaso per prenderne una tirata. “E suo figlio, che era nella nostra stessa classe, era carogna tale e quale al padre.”
Il silenzio calò sulla spiaggia ormai quasi buia. Il registratore di De Feudi incise alcuni istanti del fruscio forte del vento.
“Cosa ha fatto Ferruccio?”
Max lo chiese in un sussurro, temendo che quelle parole potessero bloccare un parto che, lo vedeva negli occhi dei tre anziani, si presentava complicato. C’era riserbo, in quegli sguardi, rimorso, forse anche rimpianto.
“Lo vogliamo dire o ce ne stiamo qui a prendere freddo?”, esclamò Guglielmo, rompendo il silenzio e l’incarto dell’ultima Rossana.
“Vede, forse non era cattivo”, tentò di analizzare Alfonso, “era figlio unico e certo l’esempio del padre l’aveva, come dire, guastato. Ma, alla luce dei fatti, l’unica realtà era che Ferruccio era proprio uno stronzo. Si divertiva a fare la spia su tutto. Se non avevi fatto i compiti, se avevi copiato in classe, se fumavi, se ti tiravi qualche… scusi l’espressione, sega. Con lui in giro non eri mai tranquillo, appariva nei momenti meno opportuni e la sua disgrazia era che pensava di farla franca. Sempre. Suo padre era un gerarca, chi poteva toccarlo?”
“Invece a noi ci toccavano eccome”, ricordò Guglielmo. “Ne abbiamo prese di bacchettate sulle nocche per colpa sua.”
Max estrasse il pacchetto delle sigarette e Tomaso e Alfonso gli puntarono gli occhi addosso. Capì e gliene offrì. Lottarono tutti e tre con il vento per accendere, mentre Guglielmo controllava l’orologio. Sua moglie gli avrebbe piantato una grana per quella sparizione inspiegata.
“Ferruccio scoprì l’americano?”
“Fece molto di più”, ammise Tomaso. “Minacciò di raccontare tutto a suo padre e di farci consegnare alle SS, insieme a tutte le nostre famiglie. Disse che i nazisti avrebbero preso l’americano e lo avrebbero torturato per scoprire dove sarebbero sbarcati gli alleati. Disse che avrebbero vinto la guerra, che lui sarebbe entrato nella Gioventù Hitleriana e che noi tre saremmo finiti nei campi di lavoro forzato, a spaccare pietre fino a quando la tisi non ci avesse ammazzati. Disse tante di quelle cose che…”.
Il fiato gli mancò e l’enfisema si fece sentire con un sibilo profondo che gli saliva dal torace. Guglielmo gli batté una mano sulla spalla.
“Sono passati sessant’anni, Toma’. Non vale la pena…”
“E voi lo avete ucciso?”
“Noi lo abbiamo fatto prigioniero.”
Lo sguardo di Alfonso rincorse il movimento delle onde, e il ricordo di quel giorno.
“Era il 20 gennaio, un giovedì. Le lezioni erano finite prima, nel pomeriggio ci aspettava don Bruno per il catechismo. Avevamo un pezzo di pane e delle noci da portare a Charlie, così ci siamo avviati verso il lago di Fogliano. Era inverno, ma era una giornata tiepida, il sole splendeva e la primavera sembrava vicina. Ogni tanto scattavano gli allarmi aerei, ma le bombe non arrivavano qui. Le fortezze volanti puntavano altrove e noi sentivamo solo il rumore”.
“Charlie stava male”, disse Tomaso. “Aveva la febbre e male al braccio. Don Bruno aveva promesso che, appena avesse fatto notte, sarebbe andato lui a dargli un’occhiata. Io comunque avevo rubato a casa la bottiglia di laudano di mia nonna, gliene abbiamo dato un po’ e pareva che stesse meglio. Provava sempre a dirci qualcosa, forse voleva ringraziarci, ma noi non capivamo una parola.”
“Quando siamo usciti dal capanno, ci siamo trovati davanti Ferruccio. Se ne stava appoggiato alla bicicletta nera fiammante e aveva tutta la bocca impiastrata dal lecca-lecca che stava succhiando. Non ne vedevo uno da anni.” Gli occhi scuri di Guglielmo sembravano rivivere quella scena, lo testimoniò con lo schiocco della lingua. “Portava la divisa da balilla, perfettamente stirata dalla governante. Sogghignava perché aveva un nuovo segreto da spiattellare. Un segreto bello grosso.”
“Ma noi eravamo in tre. La sua arroganza non gli aveva fatto mettere in conto che potevamo decidere di suonargliele.”
“E gliele suonammo”, disse Alfonso senza riuscire a trattenere un sorriso soddisfatto. “Lo riempimmo di calci e pugni, poi lo trascinammo nel capanno. C’erano dei pezzi di spago, di vecchie reti da pesca, lo abbiamo legato stretto a un palo. Volevamo imbavagliarlo, ma anche se avesse gridato, nessuno poteva sentirlo in mezzo ai canneti. Lo lasciammo lì e corremmo via. Eravamo in ritardo per il catechismo.”
“E contavate di tenerlo prigioniero fino a quando?”
“Fino alla fine della guerra, se fosse stato necessario” disse Guglielmo.
“Le voci correvano. Certo non sapevamo che di lì a due giorni gli americani sarebbero sbarcati ad Anzio, ma tutti si aspettavano l’apertura del secondo fronte. E comunque la sensazione era che la guerra stesse per finire.”
“Ci siamo resi conto di aver fatto un errore solo quando siamo entrati in oratorio”, ricordò Tomaso, “e abbiamo incontrato lo sguardo di don Bruno.”
“Che genere di errore?”
“Giovanotto, lei non presta attenzione. Meno male che i vecchi siamo noi. Don Bruno sapeva di Charlie, aveva promesso di andare a dargli un’occhiata quella stessa notte. Avrebbe trovato nel capanno Ferruccio.”
“E lo avrebbe liberato”, rincarò Guglielmo, “senza pensare neanche per un attimo alle conseguenze. Quell’infame sarebbe corso di filato dal padre, per raccontare tutto, soprattutto che don Bruno aiutava gli alleati. Lo avrebbero fucilato.”
“La verità è che quel giorno saltammo la lezione di catechismo.”
Alfonso lasciò la frase in sospeso.
“Siete tornati al capanno?”
“Non subito, prima abbiamo fatto la riunione. A casa di Tomaso a quell’ora non c’era nessuno. Siamo andati nel solaio, con le sigarette che io avevo rubato a mio padre. Facemmo fumare anche Guglielmo quella volta.”
“Che schifo. Ogni volta che ripenso al sapore amaro del tabacco, mi risuona nella testa quella frase: dobbiamo ammazzarlo.”
Il giornalista non nascose lo sguardo stupito.
“Ma eravate dei bambini!”
“Eravamo bambini di guerra, ragazzo. Ci hanno fatto crescere in fretta a noi, talmente in fretta che ci rendemmo subito conto che non avremmo potuto farlo passare per un incidente. Scavammo la fossa nelle dune ancora prima di andare al capanno per ucciderlo.”
Le parole di Alfonso erano cadute come sassi. Max si scoprì a deglutire a vuoto mentre i tre anziani fissavano la sabbia ai loro piedi e la aravano con le dita nodose.
“Come… come lo avete fatto?”
Tomaso si schiarì la voce e quando alzò la faccia, anche nella luce sempre più fioca il cronista si accorse delle lacrime negli occhi rotondi e tristi.
“E’ stata la cosa più difficile. E’ che non… io non avevo mai neanche tirato il collo a una gallina.”
“Perché, noi sì?”, borbottò Guglielmo.
“La pistola di Charlie avrebbe fatto troppo rumore, e poi era enorme”, sembrò giustificarsi Alfonso.
“Così abbiamo pensato al laudano di mia nonna. Facemmo come avevamo visto fare ai fascisti con l’olio di ricino. Tenemmo fermo Ferruccio e lo costringemmo a bere tutta la bottiglia. Poi ci siamo seduti ad aspettare.”
Tomaso non riuscì a continuare. Tirò rumorosamente su con il naso e si nascose la faccia tra le mani.
“Era incosciente quando gli abbiamo tenuto la testa sott’acqua”, finì per lui Alfonso.
La luce in cielo era quasi del tutto sparita. Il vento era rinforzato e il freddo cominciava a farsi pungente come la sabbia contro la pelle del viso. Max spense il registratore e si accese un’altra sigaretta. Questa volta i due vecchi fumatori non allungarono gli occhi verso il pacchetto. Ognuno di loro si torceva le mani, come se sentissero ancora, sotto le dita, la testa di Ferruccio che tentava di galleggiare verso l’alto.
“Perché mi avete raccontato questa storia? Nessuno, mai, sarebbe risalito a voi. E’ successo quasi 70 anni fa.”
“E’ stato per don Bruno”, mormorò Guglielmo. “Con la vostra curiosità da giornalisti, siete andati a rivangare quella storia della pedofilia e non potevamo permetterlo, capisci? Don Bruno non se lo merita. Lui, se fosse entrato in quel capanno, lo avrebbe salvato a Ferruccio.”
Il cronista si alzò e cominciò a percorrere lo spazio davanti al vecchio tronco, nodoso quanto le giunture di quei tre.
“Cazzo! Era un bambino. Come vi è saltato in mente? Potevate…”
“Non ci aspettiamo che lei capisca, giovanotto.”
“Io invece voglio capire! Lo avete assassinato a sangue freddo e vi siete tenuti dentro questo segreto per tutti questi anni. Poi io sfioro la memoria di un prete morto da una vita, e voi mi rovesciate addosso tutto questo orrore. Perché?”
“E a se stesso che sta pensando, o a noi?”
La domanda di Alfonso lo costrinse a fermarsi. Non li distingueva quasi più, nel buio.
“A me. Vi rendete conto? Il caso di Ferruccio Leonardi ha fatto parlare tutto l’Agro Pontino per anni. Si è detto tutto e il contrario di tutto. La madre è morta di crepacuore.”
“Non è stata la sola. Le madri di coloro che Leonardi padre ha tradito hanno pianto lacrime di sangue”, protestò Tomaso.
“Ma lui era un bambino.”
“Anche noi”, ribatté Guglielmo. “Non cerchiamo la sua assoluzione. Crede che in tutti questi anni non ci siamo chiesti se meritassimo di vivere? Ogni volta che guardo mio nipote negli occhi, rivedo quelli di Ferruccio. Era un bel bambino…”
“Che cosa dovrei fare io, adesso?”
“E’ evidente. Deve scrivere la verità.”
Max rise sarcastico.
“Certo. Voi ve ne lavate le mani, tanto ormai siete vecchi e quel che è fatto è fatto. Ma non pensate alle vostre famiglie? Ai vostri nipoti? Che penseranno?”
“Che non abbiamo avuto scelta”, rispose Tomaso.
“Che non conoscevamo altro mondo che la guerra”, aggiunse Alfonso.
“L’avevamo solo fatto prigioniero…”, mormorò Guglielmo.
E Max riconobbe nelle sue parole l’eco della voce di un bambino.

Laura e Lory

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