Venerdì 27 luglio, attraverso gli schermi delle tv di tutta
Italia, abbiamo assistito a due situazioni: la cerimonia di apertura delle
Olimpiadi di Londra e il blocco dell’intera città di Taranto da parte degli
operai dell’Ilva. Della cerimonia di Londra è stato detto che è stata una delle
più belle delle ultime edizioni, forse la più bella in assoluto. Dagli operai
della più grande acciaieria d’Europa che tenevano in scacco Taranto ci è giunta
la peggior dichiarazione di sconfitta mai pronunciata. Quella che sancisce il
prezzo definitivo della rivoluzione industriale: “meglio morire di tumore che
di fame.” Cosa lega questo meglio e questo peggio in un caldo venerdì di fine
luglio? La concomitanza e un rapporto di causa – effetto. Durante la splendida
cerimonia londinese la magia degli effetti speciali ha fatto fiorire dal verde
impareggiabile della campagna inglese svettanti, oscure ciminiere. Il regista
Danny Boyle ha voluto ripercorrere la storia della Gran Bretagna e non si
poteva prescindere dall’impatto devastante della rivoluzione industriale. Fu la
forza del carbone, delle macchine a vapore, delle ciminiere a portare il Regno
Unito in cima al mondo. E nessuno si oppose alla coltre di polvere nera che
rese la campagna meno verde e il cielo meno azzurro. Si chiamava progresso. Ma
le ciminiere di Danny Boyle venerdì erano di cartapesta, circondate dal
tripudio di un intero stadio osannante. Le ciminiere dell’Ilva di Taranto sono
reali. Reali come l’atroce verdetto emesso da un abitante della Zona Tamburi, il
quartiere di Taranto detto anche “dei morti viventi”: “meglio morire di tumore
che di fame.” Sono passati due secoli dall’avvio della massiccia
industrializzazione del pianeta e la contraddizione tra sviluppo e tutela
dell’ambiente è ferma ai tempi dell’Inghilterra dickensiana. A Taranto lo
chiamano “il minerale”. È la polvere che cala dagli scarichi delle ciminiere. A
volte rosa, a volte scura, sale in alto portata dai vapori della lavorazione
dell’acciaio, dal calore degli altoforni, poi scende a posarsi sui giardini,
sulle strade, sui panni stesi, sulle coltivazioni, sulle persone. La gente lo
sa. Le donne spolverano via quella polvere tutti i giorni, più volte al giorno.
Ma è una lotta persa in partenza. Perché, proprio come accadeva
nell’Inghilterra delle prime fabbriche, respirare quei fumi, quelle polveri,
era il prezzo da pagare per mettere a tavola il necessario. Le voci che salgono
dalla Zona Tamburi si possono idealmente sovrapporre a quelle degli operai
inglesi dell’Ottocento. Racconta una casalinga di Taranto: “Il dottore mi ha
chiesto dove lavoro, perché i miei polmoni sono neri come il carbone. Ma non mi
importa, la fabbrica deve rimanere aperta.” Non è una voce isolata, il coro è
pressoché unanime. Certo, l’Ilva andrebbe risanata. Ma se l’alternativa al
minerale che li intossica è la disoccupazione, gli operai di Taranto non hanno
dubbi: nell’anno domini 2012, meglio morire di tumore che di fame.
Laura Costantini
leggerti è sempre un piacere, Laura
RispondiEliminaGrazie Stefano.
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