"Hai mai sentito parlare di Tin Hinan?”
Mattias si limitò a scuotere la testa. Il silenzio
del deserto era come amplificato dal borbottio sconosciuto di Ahmed e i suoi
uomini. Poi uno di loro intonò un canto che sembrò aprire lo scrigno dei
pensieri di Nesayem.
“Tin Hinan sarebbe stata una nobile donna musulmana,
arrivata in questa zona dal Marocco, in compagnia della sua ancella Takama.
All’epoca qui vivevano gli Isebeten, il popolo che ha preceduto gli Imohag nelle terre dell’Hoggar. Forse
gli ultimi Garamanti. La leggenda
dice che questa gente era ingenua e primitiva, adoravano gli dei e parlavano
un’altra lingua, ma Tin Hinan si sarebbe accoppiata con uno di loro e avrebbe
avuto una figlia, Kella, che, a sua volta, avrebbe sposato un guerriero
Isebeten facendone il primo amenokal,
cioè capotribù, che la storia del nostro popolo ricordi: Sidi ag Mohammed
Elkhir.”
“E’ un nome arabo”, notò Mattias. “Ero convinto che
la tua gente non amasse molto gli arabi.”
Nesayem sorrise.
“Dice un nostro detto: loro avevano il Corano, noi avevamo le terre. Oggi noi abbiamo il
Corano e loro hanno le nostre terre. In realtà la leggenda ha un fondo di
verità che risale a molto prima che il profeta Maometto pensasse bene di dare a
un popolo rissoso e straccione come quello arabo una religione e uno scopo da
perseguire. Tin Hinan è veramente esistita e a provarlo c’è la sua tomba, un
colossale monumento megalitico nei pressi di Abalessa, a neanche due giorni di
cammino da qui. E’ un accumulo di massi a forma di mezzaluna, noi li chiamiamo édebnì e secondo un’altra delle nostre
leggere sarebbero le tombe di una popolazione di giganti dell’antichità, gli ljabbaren.”
Il canto continuava con un andamento ipnotico che
rendeva favolose e credibili al tempo stesso le parole di Nesayem.
“Vuoi dire che Tin Hinan era una gigantessa?”
Lei scosse la testa.
“Era una regina”, disse in tono ispirato. “La sua
tomba comprende undici stanze sotterranee circondate da una spessa muraglia. In
una di queste, nel 1935, è stato trovato il suo scheletro e il suo corredo
funebre. E’ stata sepolta con gli onori di una grande sovrana. Grande anche nel
senso fisico del termine perché era alta almeno un metro e settantacinque. Una
statura non comune per l’epoca, per una donna e per il popolo degli Isebeten.
Quando gli europei sono venuti a contatto con la civiltà della mia gente, ciò
che li impressionò fu il ruolo della donna nella società. Contrariamente agli
usi imposti dalle popolazioni musulmane, per gli Imohag la donna ha una grande importanza, non porta il velo, che è
destinato agli uomini in ricordo della vergogna di un’antica battaglia persa
dai nostri guerrieri per viltà, e soprattutto trasmette il potere per via
matrilineare.”
“E tutto questo deriverebbe da Tin Hinan?”
Il canto si era esaurito e adesso i tuareg
parlottavano tra loro e ridevano.
“Si”, rispose Nesayem, “la regina Tin Hinan o, come
la riportano i miti occidentali, la regina Antinea.”
Mattias sorrise.
“Quella di Atlantide?”, esclamò senza nascondere il
proprio scetticismo.
“Atlantide è solo il nome che gli europei, a partire
da Platone, hanno voluto dare al ricordo ancestrale di una civiltà molto
evoluta che è stata spazzata via da una qualche catastrofe. Potrebbe essere
stata l’esplosione e il successivo maremoto dell’isola di Santorini, potrebbe
essere stato il crollo della barriera che teneva l’oceano fuori da quello che
oggi è lo stretto di Gibilterra, potrebbe essere stata la desertificazione
definitiva del Sahara. Qui oggi la vita sembra estinta ed è stato ascoltando le
storie degli uomini che tornavano con le carovane del sale dal Niger o dal Mali
che, quando ero bambina, ho scoperto che esistevano davvero tutti quegli
animali che avevo visto disegnati nelle grotte sacre: leoni, giraffe, zebre,
struzzi. A tutto il mio popolo piace raccontare, evocare con la sola forza
delle parole il mondo che abbiamo perduto.”
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