Narratore
onnisciente o prima persona, il problema del punto di vista
In
inglese si chiama pov (point of
view). Nei manuali si divide tra esterno e interno, a seconda se si racconta in
terza o prima persona. La terza persona, ovvero un punto di vista neutro che vede tutto e tutto registra è
quello del cosiddetto narratore onnisciente. Se vogliamo trasporre il discorso
dal punto di vista cinematografico, una telecamera puntata sulla scena è un
punto di vista esterno che ci racconta quello che avviene nello spazio che
inquadra. Ci siamo? Il problema è che la telecamera, proprio come le parole,
può cambiare inquadratura, può zoomare su un particolare, può sottolineare e
suggerire e raccontare, esattamente come possono farlo le parole. E nel caso
del narratore onnisciente, sarà sua scelta (e quindi vostra) quale parte della
scena mostrare. Perché l’onniscienza implica che si sappia chi dice cosa e perché
e che si possa suggerirlo (mai spiegarlo, però) al lettore. Ma anche che si possa
scegliere l’angolazione. Se il personaggio A apre una porta ed entra in una
stanza, sorprendendo il personaggio B a frugare in un cassetto, voi che
scrivete avete scelto di stare dalla parte di A e quindi, se B non avrebbe
dovuto frugare nel cassetto, esprimerete ciò che vede e come reagisce. Rabbia,
delusione, alterazione. Potrebbe seguirne un dialogo dai toni urlati, se non
addirittura uno scontro fisico. Se invece il personaggio B è lì col cuore a
mille mentre cerca nel cassetto la versione originale del testamento da cui è
stato escluso, l’accorgersi di passi dietro la porta, lo scatto della maniglia
e l’apparizione di A daranno alla scena un’altra angolazione. Un altro punto di
vista, appunto. Scegliere uno o l’altro non è indifferente, dice molto di voi e
dice molto della storia e anche dei vostri personaggi. Quello che non potrete
fare, pur mantenendo la terza persona e quindi la visuale esterna, è mantenervi
neutrali. Mi verrebbe da dire che la scrittura non è mai neutrale, non può
esserlo, a meno di non stendere un verbale dei carabinieri. E no, la neutralità
non esisterebbe neanche lì, perché il punto di vista sarebbe comunque del
tutore della legge che racconta come si è proceduto a un arresto o a una
perquisizione. In ogni caso non racconta quello che ha provato il malvivente di
turno. Identificarsi nel narratore onnisciente, però, facilita lo svolgimento
della storia perché non costringe a limitarsi. Il personaggio B non può sapere
che A sta arrivando. E il personaggio A non sa che coglierà sul fatto B. Voi,
invece, sapete cosa stanno facendo, cosa faranno e come reagiranno. Comodo, no?
Ed
ecco perché la narrazione in prima persona comporta notevoli problemi. Voi che
scrivete siete, di fatto, il personaggio. E se non avete dei superpoteri, non
potete sapere tutto. La vostra conoscenza è limitata alla vostra esperienza
diretta. Cosa significa questo? Il personaggio C ci sta raccontando una
spedizione notturna alla ricerca della quotidiana dose di droga – una brutta
persona il personaggio C, ma mica vorrete sempre eroi, vero? – e quindi ci
descrive in soggettiva, ovvero come se i suoi occhi fossero una telecamera,
quello che vede – asfalto sconnesso, bidoni della spazzatura, cani randagi,
lampioni fiochi, qualche senzatetto a dormire sui cartoni – e quello che sente –
il brusio del traffico distante, una solitaria sirena della polizia, il cane
che abbaia, il ronzare dei lampioni, il russare del clochard. Ci siete? Se ci
fosse un narratore onnisciente, potrebbe allargare l’inquadratura e mostrarci
che C è seguito dal personaggio D che vuole ucciderlo. Quindi, voi che
scrivete, potreste accrescere il pathos della scena, facendo però attenzione a
un fatto: il punto di vista è di chi vede. Se C viene seguito, chi vede è D.
Perché C non si è accorto di niente. Se invece il vostro punto di vista è
quello di C, in prima persona, non avrà alcun sentore di essere seguito da D e
quindi il fattore sorpresa farà sobbalzare lui e il lettore che, come uno
spettatore al cinema, vede la scena attraverso di voi, attraverso i vostri
occhi. Se doveste decidere che D stordisca C con un colpo alla testa, di fatto
C un attimo prima è lì che cerca il suo pusher di fiducia e un attimo dopo è
nel mondo dei sogni, anzi degli incubi, perché un colpo alla testa in grado di
stordire fa male, fa malissimo. Se ne accorgerà se e quando si sveglia, ma
intanto il lettore non ha e non può avere la più pallida idea di chi sia stato
a colpire. Chiara la differenza?
C’è
poi un aspetto della scrittura che rende la narrazione – soprattutto una
narrazione thriller o gialla – meno efficace delle immagini. Fateci caso: nei
film lo spettatore è pilotato a notare delle cose. Un poliziotto entra sulla
scena del crimine, si guarda intorno, indossa i guanti, cerca di inquadrare
come possano essersi svolti i fatti, poi lascia spazio alla scientifica. E,
mentre esce, la telecamera lo segue per poi zoomare su uno scintillio che sbuca
da sotto un tappeto fino a mostrare allo spettatore un orecchino che, di certo,
è già stato notato all’orecchio della dark lady di turno. Ci siete? Ecco,
provate a farlo scrivendo.
Non
potete. Immaginate un lettore che si trovi davanti questa frase: “il detective
XYZ non notò lo sfavillio di topazio dell’orecchino che solo poche ore prima
era stato ammirato al lobo della padrona di casa. Era troppo preso a seguire il
dondolio del culo dell’agente della scientifica che popolava i suoi sogni
erotici.” Cosa gli avete detto? Che il detective XYZ è un deficiente erotomane
e che, molto probabilmente, la colpevole è la padrona di casa. Non funziona.
Non può funzionare così. Come anche non può funzionare una scena che è un
classico di film e fiction. Il personaggio E dichiara il proprio amore al
personaggio F. Emozione, i due si abbracciano e la telecamera cambia
inquadratura e ci mostra che, mentre F ci dimostra con un’espressione di
profondo coinvolgimento che c’è caduto con tutte le scarpe, E mostrerà all’obiettivo
una faccia e uno sguardo che vogliono avvisare lo spettatore con un sottotitolo
evidente: “ho detto una balla grossa come una casa, sono un* stronz*”.
In un
libro non lo potete fare. Perché che siate narratori onniscienti o adottiate la
soggettiva del personaggio, vale la regola dello show me, don’t tell me. Al lettore dovete far capire che il
personaggio E sta prendendo in giro F. Ma non glielo dovete dire con chiarezza,
come farebbe la telecamera di cui sopra.
Tutto
chiaro? Personalmente adoro usare la prima persona, ma se volete veramente
capire la differenza, provate a prendere un vostro stralcio scritto da
narratore onnisciente e volgerlo in soggettiva. Non basta cambiare in verbi
alla prima persona. Si deve adottare proprio un altro stile.
Mi
consento un esempio usando un nostro (mio e di Loredana Falcone) incipit
inedito. È scritto con il pov in
prima persona o interno, se preferite.
“Il dolore ha un suono. Come un
lontano carillon.
Nessuno mai ti parla del dolore.
Eppure grida. Parte silente ma cresce, come una nota di violino. È una musica
che conosco. La suonavi tu, quel giorno.
Fa diesis, sol, la. E adesso entra il basso, dicevi. Poi la batteria. La senti
la grancassa all’unisono col basso?
Fa male. Fa male che ti leva la voce.
Sento le labbra lacerarsi come carta velina mentre provo a cantare quelle
parole: guarda la pietra nei tuoi occhi, guarda la spina nel tuo fianco, io ti
aspetto.
Non esce alcun suono. Non ho voce.
Diceva un vecchio film che nello spazio nessuno può sentirti. E se nello spazio
non ci fosse altro suono che quello del dolore?”
Proviamo
a scriverlo dal punto di vista del narratore onnisciente?
“Quello che sente è un suono. Come un lontano carillon che
diffonda dolore.
Nessuno mai parla del dolore. Eppure grida. Parte silente
ma cresce, come una nota di violino. È una musica che lei conosce. La suonava una persona importante, per lei, in
un giorno lontano. Fa diesis, sol, la. E adesso entra il basso, diceva quell’uomo,
quel ricordo. Poi la batteria. La senti la grancassa all’unisono col basso? Chiedeva.
Fa male. Un dolore che toglie la voce. Sente le labbra lacerarsi
come carta velina mentre prova a cantare quelle parole: guarda la pietra nei
tuoi occhi, guarda la spina nel tuo fianco, io ti aspetto.
Ma non sente alcun suono. Si rende conto
che non ha voce. E le torna alla mente la battuta di un vecchio film: nello
spazio nessuno può sentirti, diceva. E se nello spazio l’unico vero suono fosse
il dolore?”
Il
narratore onnisciente deve spiegare, dare dei soggetti precisi, identificare
immediatamente chi fa cosa. La prima persona è più libera e, a mio parere, più
incisiva.
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