lunedì 26 febbraio 2018

#ilmioincubopeggiore Quello che resta...

Mi manca il respiro. Questo bagagliaio puzza in maniera terribile di rancido e muffa. Sto per vomitare e se non voglio morire soffocata devo concentrarmi per resistere: il bavaglio sulla bocca è troppo stretto. Mi sforzo di riuscire a mantenere la calma, ma la paura mi entra negli occhi e brucia. Quel pazzo mi ha colpita forte, sull’occhio destro che ora continua ad alternare lampi improvvisi di luce al buio più totale. Mi sembra sia trascorso un secolo da quando mi ha rinchiusa qui dentro.
La macchina rallenta e si ferma, senza scatti bruschi. Capisco che sta scendendo dall’auto. Che farà? Non voglio pensare a cosa mi farà. Inizio a tremare e lo sforzo di bloccare gli spasmi mi causa un dolore invadente, che mi scoppia in tutto il corpo. E adesso? Niente, non accade niente. Ascolto le voci fuori. Sicuramente si è fermato per fare benzina, poi andrà a prendere qualcosa al bar. Lo conosco bene. Un bel bicchiere di aranciata. Ho sempre sperato che una volta smesso di bere roba seria sarebbe riuscito a ritrovare la calma, almeno la serenità invece… ma sentilo com’è cordiale mentre chiede anche di farsi pulire il parabrezza, ad alta voce così che possa udirla. Bastardo.
Penso all’aranciata e mi rendo conto di avere sete. La lingua si è gonfiata. L’arsura parte dal bisogno profondo di placare questo calore che mi sta soffocando, ma non voglio farmi catturare dal terrore, altrimenti addio concentrazione. Vorrei capire solo se esiste una minima possibilità di uscire da qui. Non riesco a muovere un solo muscolo, stretta nello scotch da pacchi, imbalsamata, mentre l’interno del bagagliaio è rivestito da uno spesso strato di gommapiuma, almeno così mi pare mentre sbircio con l’unico occhio sano che mi rimane. Quindi, anche se riuscissi ad agitarmi, nessuno sentirebbe. In ogni caso, non ce la faccio. Ho dolori ovunque. Ci è andato giù pesante. Per cosa poi? Per aver sottolineato una frase, un’unica frase, sul suo fumetto preferito, con la matita. Un segno di matita.
Pazzo furioso che non sei altro! Il segno di matita si cancella, mentre quel che stai facendo a me, no! Con determinazione ricaccio indietro le lacrime che, in questo momento di angoscia, non servono proprio a nulla.
È tornato, come fa sempre. Sbatte lo sportello con forza, riparte, stavolta senza alcun garbo, e accende lo stereo. Cerco di godere di questo poco tempo in più. Per fare cosa, poi? Vivere? Morire? Stavolta ha proprio esagerato. Le note de Il trillo del diavolo mi avvolgono, come un ultimo regalo infiocchettato dalla paura. Mi chiedo dove mi stia portando e cosa mi farà, ancora. Non credo di farcela. Non penso di poter resistere ad altro dolore né ad altre torture. Non mi sforzo nemmeno più di frenare i movimenti inconsulti del mio corpo. Ho solo paura e non posso fare nulla.
Forse però, mi blocco un attimo afferrando con tenacia la piccola idea prima che fugga da qui, se solo mi togliesse questo bavaglio, potrei provare a parlargli come ho sempre fatto. Come se niente fosse. Sì, forse potrei provare a fare questo. Se solo mi liberasse la bocca.
Non appena spalanca il bagagliaio istantaneamente chiudo l’occhio, quello sano perché il destro è talmente gonfio che oramai non posso più aprirlo. Quando riesco a guardare la luce dapprima mi acceca e poi lentamente la sagoma scura inizia a prendere forma e colore. Solita giacca nera sulla sempre solita camicia rossa. Intuisco i soliti jeans. Cosa pensavo, che si fosse cambiato d’abito al bar? Era così prima e lo è anche adesso. Solo che adesso ha in mano un coltello, di quelli lunghi e affilati che lascio sempre sul ripiano della cucina. Il mio ripiano, la mia cucina. Vuole uccidermi con il mio coltello e, bastardo fino in fondo, non mi toglie il bavaglio. Sa che proverei a parlare.
Alza il braccio e affonda.
Mi sveglio mentre mi agito come un’ossessa.
Un incubo, porca miseria. Il peggiore di tutti. Sudo copiosamente e il cuore mi batte all’impazzata. Allungo una mano, mi giro e mi accorgo di essere sola. Dall’altra parte del letto non c’è nessuno. “Sarà andato in bagno” penso, mentre uno strano movimento cattura il mio sguardo.
Lui è lì. In piedi, poggiato allo stipite della porta e sembra fissarmi.
I miei occhi si abituano subito all’oscurità. Solita giacca nera sulla sempre solita camicia rossa. Jeans e Clarks, con le sempre più improbabili stringhe rosse. Ha uno strano sguardo mentre mi dice: «Dopo aver scartato tutte le ipotesi possibili, quello che resta è il mio mestiere: l’incubo», poi si getta su di me con il coltello.
Alza il braccio e affonda.
Stavolta grido. Forte. Talmente forte da riuscire a svegliare anche la signora di sotto, che inizia a battere all’impazzata sul suo soffitto con qualcosa. Mi metto seduta e osservo la stanza. Nessuno. Sono salva finalmente. Rido.
So che usa la scopa perché me l’ha detto il figlio, l’altro giorno in ascensore. Un gran bel ragazzo. Moro, alto. Giacca nera, camicia rossa, jeans…
Giuda ballerino!

Stai a vedere che sono proprio io il mio incubo peggiore!

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